Il famoso acronimo TBTF (Too Big To Fail) torna di moda nel mondo dei Loans, a cura di Allspring Global Investments
L’asset class dei leveraged loans richiede un approccio dinamico e attivo per evitare emittenti di bassa qualità o con un livello di debito troppo elevato, guardare oltre al rating di credito ed avere un esposizione settoriale in linea con il ciclo macroeconomico
07/05/2024
Redazione MondoInstitutional
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È da un po’ che non si sente usare l’espressione “troppo grande per fallire”, nota anche con l’acronimo TBTF (dall’inglese “too big too fail”): ogni tanto ricompare, ma sicuramente non in modo sistematico come nella crisi finanziaria globale del 2008, quando aziende di grandi dimensioni venivano considerate troppo grandi per non ricevere sostegno pubblico attraverso piani di salvataggio straordinari. Oggi potremmo rispolverarlo e applicarlo al panorama europeo del leveraged finance, dalle obbligazioni high yield ai leveraged loans, dove c’è un’ampia gamma di emittenti di dimensioni diverse in ogni settore, area geografica e rating di credito, da società con rating più elevato (BB) a quelle più rischiose (B- e CCC). High Yield e Loans, sono però due aree del mercato del credito cresciute molto nell’arco degli ultimi dieci anni. Sul lato high yield, l’asset class é poco meno di 500 miliardi di euro mentre per quel che riguarda i leveraged loans istituzionali, siamo poco sotto i 300 miliardi. Nel mix, abbiamo appunto aziende di medie dimensioni, qualche societá quotata, alcune ancora di proprietá familiare e molte in mano a private equity sponsors. La maggior parte di queste emissioni sono in euro mentre circa un 10% del totale sono in sterline.
Quando nel 2022 è iniziato l’attuale ciclo di rialzi dei tassi di interesse, in molti avevano previsto effetti negativi diffusi in diverse aree dell’economia, che avrebbero rappresentato portato ad un aumento dei costi di finanziamento e dunque uno stop per le economie. Si è avverato però uno scenario ancora più complesso che per le imprese rallenta le spese in conto capitale e le operazioni di fusione e acquisizione, soprattutto quelle che utilizzano ampiamente la leva finanziaria. Alcune di queste previsioni si sono avverate, ma quello che non era stato previsto allora è il dibattito che vede contrapposte le grandi e piccole strutture di capitale o capital structure; dibattito che in questo momento è piuttosto acceso nello spazio del credito europeo.
In tutti i mercati e per tutte le asset class c’è la tendenza a credere che “più grande è meglio”, ossia che le grandi imprese siano meglio capitalizzate, maggiormente diversificate e forse anche più attrezzate per resistere a shock esogeni. Nella maggior parte dei casi è vero, e gli investitori preferiscono destinare la porzione maggiore dei loro portafogli a società più grandi e più liquide. Le cose si complicano se per “grande” si intende una struttura di capitale molto ampia e una quantità maggiore di debito. In questo caso alcuni investitori, con un approccio prevalentemente passivo orientato al benchmark, magari senza volerlo, potrebbero costruire portafogli con un’inclinazione verso le grandi strutture di capitale. Lo scorso anno l’attenzione era rivolta ai piccoli emittenti di singole obbligazioni o prestiti, ma la maggior parte di loro è riuscita a prorogare le scadenze e a trovare fonti di capitale alternativo per rifinanziarsi. Quest’anno, invece, troviamo un piccolo numero di società molto grandi con un grosso debito in bilancio, per le quali potrebbe non essere facile trovare una soluzione. Tra queste, le prime che vengono in mente sono sicuramente Altice France, Atos, Thames Water, Intrum e Ardagh Group. Ogni situazione è diversa, ma ciò che le accomuna sono le forti pressioni a cui sono stati a lungo sottoposti i loro bilanci: le scadenze sono state prorogate in un contesto accomodante di tassi molti bassi, e i livelli di indebitamento potrebbero non essere adeguati alle attuali valutazioni di queste imprese da parte del mercato.
Nel corso degli anni, lo scenario europeo è stato molto variegato in termini di strutture del capitale, e oltre un decennio di bassi tassi di interesse ha spinto alcune imprese a scegliere un livello di leva finanziaria netta superiore a quello tipicamente consentito dai mercati dei capitali e dalle relative valutazioni d’impresa. Questo significa che, in generale, la quantità di leva “consentita” per una società con una valutazione aziendale intorno ad esempio alle otto o nove volte (Enterprise Value / Ebitda) non dovrebbe essere superiore a quattro o cinque, diciamo al massimo il 50% della struttura del capitale. I veri problemi sorgono quando una società ha una valutazione piú bassa, ad esempio intorno a cinque o sei volte, e il livello di leva finanziaria netta è appena inferiore proprio a quella valutazione, lasciando un margine di valore molto ridotto sia per gli azionisti che per i creditori. Questo crea un circolo vizioso, perché una valutazione bassa ed un costo del debito in aumento scoraggiano il sostegno e l’ulteriore iniezione di capitale proprio da parte degli azionisti e, per quanto riguarda il credito, potrebbero spingere gli operatori del mercato a scambiare il debito a sconto, generando rendimenti richiesti sul debito della societá ancora più alti e una struttura del capitale ancora più insostenibile.
Quando tutto questo succede alle grandi strutture di capitale, trovare sacche di capitale alternativo come il private debt, in modo da facilitare il rifinanziamento facendo la parte del cavaliere bianco, diventa molto più difficile. Queste società tendono a essere già esposte ai mercati obbligazionari e dei loans, il che le rende deboli agli occhi di un ampia base di investitori. In un contesto di tassi più alti più a lungo, queste situazioni non sono facili da risolvere, ed è esattamente quello che sta succedendo alle società che abbiamo citato prima. Gli azionisti potrebbero non essere incentivati a sostenerle, e il costo proibitivo del debito rende piuttosto complicato qualsiasi rifinanziamento alla pari. Tutto questo sta portando a una corsa al coinvolgimento di consulenti legali e finanziari, sia dalla parte degli investitori che per le società in crisi, per avviare trattative che nella maggior parte dei casi diventano conflittuali. Nel caso di grandi strutture di capitale, la situazione si complica ulteriormente perché il numero di investitori che intendono vendere o ridurre l’esposizione non sempre corrisponde all’ammontare del capitale di fondi di distressed debt disponibile ad acquistare a sconto per avviare un processo di ristrutturazione.
Dal punto di vista degli investitori più tradizionali, questa non è una situazione ideale, poiché potrebbe degenerare in un processo molto lungo per imprese con valutazioni basse, portando a bassi recuperi, e dunque non rappresenta una proposta d’investimento interessante. Infine, queste imprese presentano un basso rischio sistemico, se si esclude il gran numero di posti di lavoro a rischio, il che rende meno probabile un intervento pubblico e aumenta la gamma dei possibili esiti, il più probabile dei quali è un taglio dell’importo del debito residuo. 
Per quel che riguarda i rendimenti attesi, è opportuno anche ricordare che attualmente, l’asset class dei leveraged loans offre delle cedole intorno al 8/8,25%, dovute ad una combinazione di tasso Euribor a tre mesi di circa il 4% e uno spread medio di 400 punti base. Prima del 2022, le cedole pagate erano in un range tra il 4% e il 4,5% proprio perché il tasso Euribor a tre mesi era negativo o semmai intorno allo zero. Questo cambiamento radicale, ovviamente dovuto al rialzo dei tassi, sposta i rendimenti “richiesti” per situazioni piú problematiche ad un numero in doppia cifra appunto creando una spirale negativa che aggrava le possibilitá di rifinanziamento alla pari senza ricorrere ad un taglio nominale del debito. 
Visti i rendimenti molto attraenti per l’asset class rispetto a quanto osservato negli ultimi dieci anni, conviene anche parlare di defaults e fare il confronto delle proiezioni odierne con le medie di lungo periodo. A fine del primo trimestre di quest’anno, il tasso di default per gli indici di riferimento come il Credit Suisse Western European Leveraged Loan Index si attestava poco sotto il 2%, un numero simile a quanto visto negli ultimi anni e appunto ancora molto inferiore ai picchi osservati durante le crisi economiche più recenti, dal problema del debito sovrano del 2011 alla pandemia globale del Covid nel 2020. Andando piú nel dettaglio, ci sono un piccolo numero di situazioni che riguardano grosse compagnie con strutture di capitale importanti che potrebbero influenzare notevolmente il tasso di default. Quindi protremmo anche avere uno scenario dove il numero di defaults rimane concentrato a pochissime situazioni ma il valore assoluto del debito da ristrutturare salirebbe notevolmente dovuto appunto a default di grosse aziende. Questo scenario dovrebbe favorire un approccio attivo e dinamico all’investimento in leveraged loans, ignorando parzialmente il benchmark e non sovra-allocando ai business più rappresentati nell’indice.
In conclusione, tornando al discorso delle imprese di varie dimensioni e alle grandi strutture di capitale con molto debito emesso, riteniamo che “grande” non sia necessariamente meglio di piccolo, ma che una modalità di investimento passiva, specialmente in un contesto di high yield o leveraged loans e orientata al benchmark graviterebbe inevitabilmente intorno ad aziende con large strutture di capitale ed indebitamento elevato. Ogni impresa è unica e uno stile di investimento attivo, soprattutto nel credito sub-investment grade e nei leveraged loans, dovrebbe guardare oltre il rating creditizio (che è anche influenzato delle dimensioni dell’azienda) e scegliere gli investimenti giusti per il ciclo economico attuale, puntando a ottimizzare la generazione di alpha per gli investitori.

A cura di Luigi Algisi, Allspring Global Investments

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